Sputi, insulti, chiodi nel dentifricio. Qualcuno sta dando la caccia ai fratelli Bianchi in carcere

Forti con i deboli ma spaventatissimi una volta vagliata la soglia di Rebibbia. I fratelli Marco e Gabriele Bianchi vivono nel terrore.

Marco e Gabriele Bianchi – conosciuti anche come i “gemelli di Artena” per la vistosa somiglianza tra i due fratelli – vivrebbero nel terrore di ripercussioni da parte di un potente boss che li avrebbe presi di mira.

 

I due giovani – finiti in manette per l’omicidio del 21enne Willy Monteiro Duarte nell’agosto del 2019 – all’ingresso nel carcere di Rebibbia furono accolti con insulti e sputi. Marco e Gabriele, noti per farla da padroni a Roma e dintorni, per non andarci troppo per la leggera con chi non andava loro a genio, una volta in carcere si sono trasformati da cacciatori a preda. Vivevano costantemente con la paura degli altri detenuti e con la paura di possibili rappresaglie. Da alcune intercettazioni dei colloqui tra i due si sente Marco dire al fratello maggiore: “Devi stare attento, perché pure se dormi, quelli arrivano e ti zaccagnano… Poi mi sento chiamà la mattina… ‘ao, a infame! A infame. Mannaggia.. ah infame! Mi hai spaccato il naso… il chiodo dentro al dentifricio… ogni cosa che succede, boooommm” – e mentre parla mima il gesto di una coltellata alla gola.

Le paure dei Bianchi non erano, tuttavia, infondate. I due erano entrati nell’occhio del mirino di Elvis Demce, il boss della mala albanese che voleva fare il grande salto conquistando nuove fette di mercato dello spaccio a Roma. I Bianchi gli facevano, per così dire, concorrenza. E, per questo, andavano puniti e rimessi al loro posto. Nelle intercettazioni messe agli atti nel processo contro Demce si sente l’uomo dire: “E vedi ‘mpò chi so’ ‘ste spie di merda che spacciavano a casa nostra… stanno al G9, magari a pizzicarli quei cessi veri che “hanno fatto i danni a colori co quel ragazzino che hanno ammazzato“. Dalle intercettazioni si evince che il boss voleva eliminare i fratelli Bianchi affidando il compito a un certo “Ciccillo”, un detenuto suo fedele.

 

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